expr:class='"loading" + data:blog.mobileClass'>

27 luglio 2016

Per la commovente tenacia dei ghiacciai

Per la commovente tenacia dei ghiacci
Primavera piovosa e solo appena un po' triste, quanto mi hai dato da pensare. Le cose cambiate, dimenticate, riviste, la maggior parte le ho pensate nei risvegli inquieti e indesiderati o in macchina accanto a lui che guida veloce, che guarda la strada e poi me, distrattamente, mentre mi accarezza un ginocchio, lo fa con occhi strani che non hanno direzione, come non vedessero niente e si muovono insieme alla luce.

La prima volta che un ragazzo mi ha detto Ti amo indossavo la maglietta con la E di Emergency e quei pantaloni larghi e rotti che usavano nel 2005; la prima volta, quella volta eravamo seduti in stazione ed era l'estate quando finiva, era settembre al suo afoso inizio e lui aveva detto così.
Avevo sedici anni e sapevo le figure retoriche. Ossimoro, pensai, ghiaccio bollente.
Ghiaccio, era freddo e cadeva con un tonfo dal cuore allo stomaco e cadendo evaporava nel sangue, bollente. E ghiaccio bollente fu, quella volta, la prima. E tutte le altre volte per sempre.

Occhi strani, asimmetrici, dolci eppure indagatori e spaventosi che sembrano dirigersi alla parete, o al parabrezza, o al cielo e poi ritornano alle mie clavicole e alle pupille, alle labbra, ai capelli. Lui guarda, poi parla, poi guarda di nuovo e fuma e quando dorme io lo tengo, penso alle cose e alle stagioni, a tutto ciò che portano e che portano via: quella di ora, quella di prima.

Quella di prima, quella che non era troppo cerebrale per capire che si può star bene senza calpestare il cuore. Che ci faccio qui? Me lo sono chiesta durante le notti prima fredde poi piovose infine caldissime, le risposte le ho cercate nei ricordi più piccoli, una domenica ancora buia che seguiva un sabato etilico e violento, c'è un muro in questa città dimenticata da Dio che recita PER LA COMMOVENTE TENACIA DEI GHIACCIAI. Ed è stato per i ghiacciai, ma anche per l'albero che c'è nel cortile dell'ufficio in cui lavoro. Un albero enorme, verdissimo e vecchio, fa ombra alle panchine dove mi siedo a fumare e fa ombra alla strada che porta al liceo in cui andava mio padre. Quell'albero era lì quando Mario, piccolo, aveva lo zaino sulle spalle e andava al Manzoni ed è lì adesso a ripararmi dal sole - lo sa, quell'albero, di essere lì a scandire i giorni, in una tra le zone più belle ed autentiche di Milano, lo sa e resta, non cade e non muore, per la commovente bellezza degli alberi, per la commovente tenacia dei ghiacciai, per la commovente ingordigia con cui ho desiderato tutto ciò che lo riguardava, che lo riguarda ancora, che lo riguarderà poi. Quella di ora, Troppo cerebrale, ma fortunatamente non immune. Alla tenacia dei ghiacciai, alla bellezza degli alberi, agli occhi strani che non guardano da nessuna parte forse perché non hanno bisogno di guardare per vedere - non sono immune all'amarlo ed essere amata a mia volta.

Primavera piovosa, muri che parlano, alberi che restano, ragazzi che guidano, guardano, fumano, dormono, parlano, toccano, baciano, gridano, insultano, colpiscono, ridono, piangono, ballano aspettano, comprendono, sanno, vedono e sono e scoprirsi nuovamente capaci di ricordare le cose che hai sempre saputo: che a nullo amato amar perdona e che al cor gentil ratto s'apprende. Lo sapevo, come sapevo le figure retoriche, come sapevo che il ghiaccio può farsi bollente. Non lo so che cosa c'è al di là degli occhi lucenti e solo apparentemente smarriti, quali ricordi, quali storie, io non sono lui ma sono io e io mi sono appena ricordata. Che se succede, dopo che succede, allora è facile e sgorga fuori, se ne sbatte delle verità che nella tua presunzione credevi di aver visto, se ne sbatte di quel che è stato e sei di nuovo malata. Malatissima. D'amore.

Tutto si è rivelato incredibilmente semplice come abbeverarsi o mangiare, qualcosa di ovvio, di ineluttabile e non particolarmente importante: il fatto di averlo incontrato da qualche parte nella mia vita e poi averlo incontrato di nuovo e lasciare che dormisse nel mio letto, che lo riempisse di odore, di capelli, di sudore, di pieghe e mentre si stende ed è esile ma anche forte io mi stendo al suo fianco e penso che lo siamo entrambi. Esili. Ma forti. Il sangue ce l'abbiamo caldo e i nervi ce li abbiamo tesi e i capelli ce li abbiamo folti e le mani ce le abbiamo piccole e le idee ce le abbiamo chiare e la volontà ce l'abbiamo ferrea e il carattere ce lo abbiamo brutto e il cuore, comunque, ce lo abbiamo grande che riempie gli spazi, si prende quello dell'altro e lo rimescola, lo squarcia, lo rimette al proprio posto, spalle al muro. E siamo uguali, speculari, uniti, sporchi, palpitanti e veri. Tenaci come il ghiaccio. Commoventi come il fuoco.

17 marzo 2016

Prossimamente su questi schermi

La vita interiore, Alberto Moravia
Che si appannano ed esibiscono la pochezza delle nostre esistenze, ci proteggono dal cielo latteo, moribondo, sfigurato di polveri sottili. Non vorrei (più) sapere. Non vorrei (più) vedere. Si tornasse alle missive, alle lettere. E al cielo. Ad ogni epoca le sue miserie. Quando ero più giovane di adesso anche mio padre lo era, mi raccontava di quando era più giovane, molto più giovane di adesso e aspettava per lunghissime ore le telefonate dell'amata al bar della stazione. Non si capacitava, lui, della scarsa pazienza di sua figlia quando si trattava di SMS e del fatto che noi, io, la vita ce l'avessi sempre in tasca, o sul fondo della borsa, sugli schermi dei telefoni che negli anni ho consumato e perso, gettato via, lanciato forte contro ai muri, alle persone.

Tutte le cose importanti le abbiamo in tasca e ad oggi si muovono sugli schermi, questioni di giga. Lo sa bene l'operatore della TIM, mi dice, signorina, sono 3 giga e centinaia di minuti, tutti veri. Sì, ma ascoltami: 3 giga al mese, tutti quei minuti (veri!) basteranno a dirsele le cose importanti di una vita intera?
I refusi e poi le libertà nei confronti della consecutio temporum tutti gli anacoluti e poi questo :) e questo :( e in particolar modo, la loro assenza. Le cose importanti si trascinano sui giga e sono le parole, sempre. La fine è qualcosa che arriva, la fase teaser della fine si esibisce tutta nelle interazioni: mi piace, non mi piace più. Segui. Non seguire più. E dal momento che hai già difficoltà a condividere continua a non farlo. La fine è qualcosa che arriva, che letteralmente vedi arrivare, si svela nel dilatarsi dei tempi tra le schermate dove su sfondo verde, bianco, azzurro abbiamo svolto gran parte delle nostre conversazioni. Tutte le cose importanti, moltissime, non so quanti siano 3 giga al mese ma so che non basteranno e pensare che costeranno e io li pagherò.

La rete è quella cosa, quella rete di cose, tutte importanti, che ce le teniamo in tasca e si muovono sui giga, arrivano sempre a destinazione e anche tu stavi andando, mi sembra, sì ce l'avevo una destinazione e la vita si manifesta in ogni istante, e non è altro che una piccola vibrazione. Chiama. E che fai, non rispondi? La rete, di solito ci finisci dentro e ti imprigiona. Vuole la nostra opinione e prevede verbi e simboli, stelle, cuori, condividere, seguire, amare. O non farlo più. Le cose (alcune importantissime, ad esempio condividere, seguire, amare) stanno in tasca per essere lette e subite, passivamente, ti aggrediscono mentre leggi, mentre dormi, mentre baci. E non perdiamoci mai di vista, sia chiaro, persone con cui abbiamo lavorato, scopato, vissuto, fatto dei pezzi - e che pezzi. 
:) questo, o la sua assenza. 

Ti tengo in tasca a te, a te e anche a te, e a te che, ti ricordo, verrà la morte e avrà i tuoi occhi e alle amiche che se ne sono andate; la voce arriva da oltremanica ed anche la voce si consuma sui giga, o erano i mega? Era la rete. Erano soprattutto le labbra sorridenti della mia migliore amica, statiche in una foto su sfondo verde eppure la voce, da oltremanica, era la sua ed era forte e chiara, appartiene da sempre come le cose, quelle più semplici, un’intuizione e una certa pagina in un certo libro, gli affetti, gli oggetti, i rumori. Le cose importanti, ti ci impigli nella rete perché è lì che suonano, vibrano, avvertono, sono. Le hai in tasca, sulla scrivania, in una borsa a Fiumicino. Ti tengo in borsa a te che non mi hai mai regalato fiori ma me ne hai mandati, oh sì, ne hai mandati moltissimi. Tutti graditi. Come fossero veri, e lo sono. Comunque vadano le cose ricorderò per sempre come ti rigiravi nel sonno e come scoppiavi a ridere dapprima con gli occhi, poi esibendo tutti i denti - ricorderò come scopavi, come baciavi, come ballavi e il suono delle tue notifiche e quant'erano belle, quelle notifiche, perché precedevano le tue parole e se le parole non erano belle le notifiche, comunque, lo erano sempre.

La vita è una vibrazione e la vita (da queste parti e anche altre, spero) non è sempre brutta, è anche generosa di cose preziose, di cose di cui essere grati o perché no, felici. Nei treni si piange ma c’è da dire anche, si ride e abbastanza forte tra la provincia e i .jpg oppure si appoggia la fronte al vetro e si guarda lontano, oltre le case, gli alberi, i campi di grano, gli acquedotti, le montagne, quando arrivano le cose importanti, alcune di una vita intera, già dette e sempre sapute e tutte in tasca. Vibrano e sono le parole, pistolets chargés.
Fuori e dentro la rete, saranno le parole che useremo per massacrarci a vicenda e poi chiamare l'uno il nome dell'altra, vieni, ti porto in un posto a sederci sulla terra e leccarci le ferite come fanno gli animali. 3 giga al mese, centinaia di minuti, io non credo possano contenerle le parole d'amore, di rabbia, di amarezza, di consolazione, di fine, sia essa dolce oppure amara - ma sono disposta a crederti, operatore della TIM.
3 giga al mese e centinaia di minuti per dire e sentire tutte le parole che preferivo schivare e che lo sai, costeranno care ma l'offerta, mi dici, è esclusiva e irripetibile, probabilmente inevitabile, e pensata per me. Che sono prodiga e ingorda di parole, di minuti, di refusi, di malintesi, di fiori. Fuori e dentro la rete. Sto per accettare l'offerta e ci vediamo, ci siamo nella rete, tra i malintesi e fiori che, ve lo garantisco, li pagheremo cari, li pagheremo tutti. 

8 novembre 2015

La bella estate dei desideri

Cesare Pavese, La bella estate
La prima goccia di sangue si infrange sulla ceramica con un rumore ben preciso. La prima goccia di sangue ha un odore e scioglie il senso di colpa, le funi che stringono il sacco nero intorno al cuore; rilassa le reni, diffonde nel corpo un dolore sordo e sano, auspicato e giusto. Tutti i vaffanculo che ho elargito con grande magnanimità, l'emicrania, gli incisivi aggrappati alle ginocchia, la fame, che fame, che fame. Segna l'inizio di giornate sfilacciate e lacrimevoli in cui risulterà più facile incolpare il reale di essere esattamente ciò che è. In queste giornate capita, succede, mi ritrovo a pensare che l'amore, se fosse (ma non è) riempirebbe gli spazi tra le cose. La prima goccia di sangue si porta appresso le conseguenze - perché il sangue, si sa, va alla testa. Il sangue, si sa, va dappertutto. L’estate, bella, se l’è portata il sangue.

(L'estate, come il sangue, era dappertutto ed era nelle conseguenze, nei capannoni oltre la ferrovia, in particolar modo l'estate era nei cadaveri delle mosche che si accumulavano sulle insegne dei bar ed era nelle notti che si allargavano fino al mattino.) (L’estate, come sempre, cominciava in giugno. Salivo sul treno e mi paralizzavo nel freddo così detto condizionato, che sa di plastica e che puzza come la plastica - non è l'amore, mi dicevo, il punto - ma gli spazi tra le cose.) 

(Luglio, torrido, era nelle conseguenze.)(Esagerava e si faceva sentire l'estate, bella, dei desideri; ricordi, il silenzio prolungato e senza colori, come l'autostrada che squarcia la pianura. Gli spazi tra le cose, tra le vite, tra noi due. C'era il verde violentissimo del mio bicchiere e il bianco spietato della sua camicia e il bagliore della sua pelle e avevo caldo, avevo sonno, avevo male; tutto si è fatto sangue, che è andato alla testa, che è andato dappertutto, che si porta appresso conseguenze e allora Addio. Ero stanca. Lo ero di tutto, dell'interezza, nell'interezza, la camicia e la pelle. Poi le scadenze, le date, "il sole dei tuoi occhi neri" e tutte le cose che per forza di cose (!) - lasciamo perdere, non sono questi i tempi, i luoghi. Addio, vaffanculo o più modestamente ciao. Arrivederci amore, ciao.)

(Agosto scorreva lentissimo e snocciolava, come doni, i miei ventisei anni e tutti quei bicchieri, la bella estate molto portava, molto portava via. Le cose si svolgevano al di sotto del cielo della vecchia, polverosa provincia ed è stato, anche, sapersi per qualche tempo in quiete, in pace, come i morti a marcire nella canicola, da qualche parte tra la veranda e il bosco, nell'Agosto che scorreva lentissimo.) (L'estate, come la vita, si svolgeva quasi tutta tra le cose più semplici, i binari e i balconi. L'estate bella dei desideri si manifestava nella miseria e nella polvere. I desideri si svelavano piano, mai pensati, nelle forme più imprevedibili: li ho visti nelle rughe precoci di un tossico e nelle sue pupille, diceva “Vi dovete sposare” e i desideri, a volte, sono gli inceneritori che ardono in questi posti dove non accade mai niente, le risse nei bar e la noia, la grazia. I binari, pensavo, nei binari; cristallizzare l'attimo, abbatterlo, incanalarlo in qualcosa che somigliava moltissimo alla Morte e alla Felicità.)

(Agosto scorreva impazzito in tutti quegli aerei in tutte quei respiri in tutte quelle voci, femmine e amiche, sorelle forse, proprie come il sangue, e nelle cose che non avevo mai fatto. Snocciolava ancora, come doni, imprevedibili gesta e avventure che avvenivano in estate, appunto, era la bella estate dei desideri.) 

(Settembre era alle porte e non sarebbe stata estate, non sarebbe stata bella, se fosse stata priva di lividi. Gli spazi tra le cose, le solite cose, si scandivano in geometrie perfette tra i platani e i binari del tram e dov'è che stavo andando? Ad annegare in un caffè e pensavo, se parlassi apertamente sentirei in bocca il sapore amaro delle sillabe e dopo di che finiremmo entrambi all'ospedale con le gambe rotte, schiacciati dal peso di tanta idiozia. A chi hai pensato, se hai pensato, mentre facevi, se facevi? Io ti ho pensato quasi sempre. In tutti quei caffè. E dico quasi perché io so, io ho bisogno di credere (ancora) che l’amore se fosse (ma non è), riempirebbe gli spazi tra le cose, tutte le cose, sempre. Berrei, adesso, un altro caffè. Che sia l’ultimo, invece non lo è mai.)

La bella estate muore nel mio grembo e si infrange sulla ceramica con un rumore ben preciso; scivola con l'acqua, nell'acqua e non avvisa, io ero sotto la doccia e non pensavo a niente se non alla bella estate che è stata, appunto, bellissima. La bella estate è morta e non è importante come e quando sia successo, ne piango e non ne piango il triste lutto perché là dove muore l'estate, anche se bellissima e fatta tutta di desideri, nasce l'autunno, il breve autunno della ragione e quasi sicuramente, un giorno, scriverò anche di quello. Le speranze sono finite ma, se saremo fortunati, ci resteranno le stagioni.