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30 luglio 2012

All'inizio era il nome

C'è stato un momento in questo duemiladodici in cui ho saputo di aver passato lo scritto di latino.
Lo scritto di latino io l'ho dato tre volte, le prime due sono state fallimentari - dovete sapere, amati lettori, che lo scritto di latino non è un esame normale: lo scritto di latino si può sostenere una volta per sessione, ciò significa che lo scritto di latino, se non lo passi, ti blocca per i successivi quattro mesi, e nel caso spietato tu non lo passi ancora, ti blocca per altri quattro mesi e via dicendo.
La terza volta che ho dato lo scritto di latino pesavo 40kg tondi tondi.
Quando ho saputo di averlo passato ne pesavo 39, e credevo fosse una buona idea.
Quando ho saputo di averlo passato ero appollaiata sul muretto dell'aula studio a non volerlo sapere, e fumavo sigarette e berciavo cagate con la mia voce grossa, e morivo di fame e di dolore.
Quando ho saputo di averlo passato io ti ho guardato, e se la prima volta che t'ho visto forse non t'avevo visto quando ti ho guardato è stata come una cannonata in pieno petto - una cannonata avrebbe fatto meno rumore.

Quel rumore, come di temporale, nessuno l'ha sentito.
Lo stomaco si è aperto di un appetito che avevo dimenticato, le ginocchia hanno tremato di desideri che avevo ripudiato, gli occhi hanno brillato di luci che avevo spento - e ancora non so dirmi cosa sia stato; forse la tua voce, buona e gentile, che mi chiamava per nome ed era il nome quello vero, quello sostituito, buttato al macero.
Mi hai chiamata Benedetta, quel giorno, ed essere Benedetta è forse lo strazio peggiore.

E la paura divenne timore, e la voglia divenne desiderio, e l'arroganza divenne coraggio.

Le sfumature, ecco qualcosa che ho ritrovato tra gli spigoli del mondo il giorno in cui ho passato lo scritto di latino e finalmente, finalmente t'ho guardato, finalmente ho squarciato il velo e tu hai squarciato me, aprendo porte e scoperchiando quella che di me era ed è la parte più vulnerabile: la carne tenera tra l'ombelico e l'inguine, la purea organica, umida e tiepida, che ribolle tra le pieghe del cuore. 

E le rivelazioni si sono fatte spazio rincorrendosi incastrandosi tra loro stridendo nella testa fra l'ansia gelata del non poterti avere e la gioia afosa del sapermi finalmente ancora viva - e ho ricordato cose che avevo rimosso, segnali squilanti della psiche che raccontavano sogni, cose già pensate eppure mai realmente immaginate perché spietate nella loro prepotenza - e la birra scivolava fresca giù per la gola e sembrava sussurrarmi alle orecchie il coraggio, il coraggio e la voglia di guardarti in faccia e dirti con perifrasi sbagliate e anacoluti e parolacce e virgole che non erano mai al posto giusto quanto mi sembrasse crudele e gelido ogni istante là dentro che passavo senza te - e ti ho guardato scrivere, parlare, fumare e muoverti e mi sono fatta domande, data risposte - ho consumato la pelle ruvida dei polpastrelli pattinando tra i tasti del cellulare nel tentativo di trovare sempre la cosa più giusta, l'aggettivo migliore per raccontarti una qualsiasi cazzata - e un giorno tu mi hai preso la mano e la ginocchia sono diventate bollenti e ho creduto che il mio povero cervello sarebbe schizzato dalle orecchie spappolandosi sul pavimento sporco della metropolitana e sarei morta così, patetico burattino in vestito succinto e stivali, esalando l'ultimo respiro tra Palestro e Porta Venezia sotto lo sguardo attonito dei passanti accaldati.

Ed è stato prendersi le mani con le mani, e volersi senza fine, raccontarsi guardarsi ridersi addosso, scavare il proprio ventre con le dita e cavarne fuori piano quella che di me era ed è la parte più vulnerabile, la parte più bella.

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