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8 novembre 2015

La bella estate dei desideri

Cesare Pavese, La bella estate
La prima goccia di sangue si infrange sulla ceramica con un rumore ben preciso. La prima goccia di sangue ha un odore e scioglie il senso di colpa, le funi che stringono il sacco nero intorno al cuore; rilassa le reni, diffonde nel corpo un dolore sordo e sano, auspicato e giusto. Tutti i vaffanculo che ho elargito con grande magnanimità, l'emicrania, gli incisivi aggrappati alle ginocchia, la fame, che fame, che fame. Segna l'inizio di giornate sfilacciate e lacrimevoli in cui risulterà più facile incolpare il reale di essere esattamente ciò che è. In queste giornate capita, succede, mi ritrovo a pensare che l'amore, se fosse (ma non è) riempirebbe gli spazi tra le cose. La prima goccia di sangue si porta appresso le conseguenze - perché il sangue, si sa, va alla testa. Il sangue, si sa, va dappertutto. L’estate, bella, se l’è portata il sangue.

(L'estate, come il sangue, era dappertutto ed era nelle conseguenze, nei capannoni oltre la ferrovia, in particolar modo l'estate era nei cadaveri delle mosche che si accumulavano sulle insegne dei bar ed era nelle notti che si allargavano fino al mattino.) (L’estate, come sempre, cominciava in giugno. Salivo sul treno e mi paralizzavo nel freddo così detto condizionato, che sa di plastica e che puzza come la plastica - non è l'amore, mi dicevo, il punto - ma gli spazi tra le cose.) 

(Luglio, torrido, era nelle conseguenze.)(Esagerava e si faceva sentire l'estate, bella, dei desideri; ricordi, il silenzio prolungato e senza colori, come l'autostrada che squarcia la pianura. Gli spazi tra le cose, tra le vite, tra noi due. C'era il verde violentissimo del mio bicchiere e il bianco spietato della sua camicia e il bagliore della sua pelle e avevo caldo, avevo sonno, avevo male; tutto si è fatto sangue, che è andato alla testa, che è andato dappertutto, che si porta appresso conseguenze e allora Addio. Ero stanca. Lo ero di tutto, dell'interezza, nell'interezza, la camicia e la pelle. Poi le scadenze, le date, "il sole dei tuoi occhi neri" e tutte le cose che per forza di cose (!) - lasciamo perdere, non sono questi i tempi, i luoghi. Addio, vaffanculo o più modestamente ciao. Arrivederci amore, ciao.)

(Agosto scorreva lentissimo e snocciolava, come doni, i miei ventisei anni e tutti quei bicchieri, la bella estate molto portava, molto portava via. Le cose si svolgevano al di sotto del cielo della vecchia, polverosa provincia ed è stato, anche, sapersi per qualche tempo in quiete, in pace, come i morti a marcire nella canicola, da qualche parte tra la veranda e il bosco, nell'Agosto che scorreva lentissimo.) (L'estate, come la vita, si svolgeva quasi tutta tra le cose più semplici, i binari e i balconi. L'estate bella dei desideri si manifestava nella miseria e nella polvere. I desideri si svelavano piano, mai pensati, nelle forme più imprevedibili: li ho visti nelle rughe precoci di un tossico e nelle sue pupille, diceva “Vi dovete sposare” e i desideri, a volte, sono gli inceneritori che ardono in questi posti dove non accade mai niente, le risse nei bar e la noia, la grazia. I binari, pensavo, nei binari; cristallizzare l'attimo, abbatterlo, incanalarlo in qualcosa che somigliava moltissimo alla Morte e alla Felicità.)

(Agosto scorreva impazzito in tutti quegli aerei in tutte quei respiri in tutte quelle voci, femmine e amiche, sorelle forse, proprie come il sangue, e nelle cose che non avevo mai fatto. Snocciolava ancora, come doni, imprevedibili gesta e avventure che avvenivano in estate, appunto, era la bella estate dei desideri.) 

(Settembre era alle porte e non sarebbe stata estate, non sarebbe stata bella, se fosse stata priva di lividi. Gli spazi tra le cose, le solite cose, si scandivano in geometrie perfette tra i platani e i binari del tram e dov'è che stavo andando? Ad annegare in un caffè e pensavo, se parlassi apertamente sentirei in bocca il sapore amaro delle sillabe e dopo di che finiremmo entrambi all'ospedale con le gambe rotte, schiacciati dal peso di tanta idiozia. A chi hai pensato, se hai pensato, mentre facevi, se facevi? Io ti ho pensato quasi sempre. In tutti quei caffè. E dico quasi perché io so, io ho bisogno di credere (ancora) che l’amore se fosse (ma non è), riempirebbe gli spazi tra le cose, tutte le cose, sempre. Berrei, adesso, un altro caffè. Che sia l’ultimo, invece non lo è mai.)

La bella estate muore nel mio grembo e si infrange sulla ceramica con un rumore ben preciso; scivola con l'acqua, nell'acqua e non avvisa, io ero sotto la doccia e non pensavo a niente se non alla bella estate che è stata, appunto, bellissima. La bella estate è morta e non è importante come e quando sia successo, ne piango e non ne piango il triste lutto perché là dove muore l'estate, anche se bellissima e fatta tutta di desideri, nasce l'autunno, il breve autunno della ragione e quasi sicuramente, un giorno, scriverò anche di quello. Le speranze sono finite ma, se saremo fortunati, ci resteranno le stagioni. 

3 luglio 2015

Quando sarò capace di amare

Avevo ipotizzato dieci, cento, mille premesse. Sarebbe bello se, quando sarò capace di amare, non dovessi più scrivere cose come questa. "Cose come questa" sono un po' una finzione, un po' un mea culpa, un po' un tentativo di celebrare (senza successo) una canzone la cui bellezza mi provoca vertigini; non hanno un destinatario né uno scopo, non riferiscono né celano alcun messaggio. Buona lettura. 


Amore. Se avessi potuto scegliere avrei scelto di essere un maschio per esprimere liberamente la mia natura di persona inaffidabile, insensibile, egoista, bugiarda, vendicativa, irascibile e infedele. Sarei stato un uomo, un uomo come tanti (che non vuol dire tutti, vuol dire tanti), bestiale e volitivo, selvatico e intrattabile. E così, a cazzo ritto, avrei bevuto birra e pisciato per strada e risposto a qualsiasi battuta con "succhiamelo" e fatto a botte con gli altri alfa, alfa come me. Te l'avevo già detto, lo so; tra i tanti pregi, sono anche ripetitiva. Te l'avevo detto e tu mi hai amata comunque, perché tu sei Lui, anzi, Colui. Colui che mi ama "per quella che sono". Di questo devo parlarti, amore. Dell'amore. Forse, se avessi potuto scegliere, avrei scelto di essere una Benedetta diversa, una Vanna in camicia, una di quelle a cui importa qualcosa del packaging e dell’opinione delle beauty guru. Avrei cotto per te biscottini a forma di panda, mi sarei interessata alla situazione pilifera del mio inguine oppure avrei fatto la maestra; la maestra in Romagna. Avrei voluto avere i fianchi larghi e partorire i tuoi figli, occuparmi di loro. Forse avrei persino imparato a coltivare l’amore se avessi ottenuto un po’ di quella dolcezza, di quella morbidezza, di quell'attenzione (per se stessi e per gli altri) che le porta, Loro, quelle che non sono io, a coltivare le cose, realizzarle nel tempo. Quelle ragazze, sono strane. Né migliori né peggiori, solo diverse. Aliene. Sembra che non gli scappi mai di parlare di deeptroath dopo il quinto terzo Martini – non lo fanno e basta, con la stessa spontaneità con cui io non faccio sport. Hai notato, vanno a vedere l’INCI delle cose mentre io mi spalmo il cancro sulla faccia ogni mattina, ecco loro potrebbero attribuire il calo della libido a una qualche infiammazione vaginale dovuta al bagnoschiuma da 2,99€ invece io no. Io non sarei credibile. Le carogne come me non si ammalano mai, i batteri della candida ci odiano.

Perché ti sei accorto, sì, che non ti voglio più? O eri troppo occupato ad essere Colui che mi ama per quella che sono? Ma quale infiammazione. Ma quale INCI. Io non ti voglio più perché mi hai stancata, mi sei venuto a noia. C’è stato un momento, quel momento, quello che arriva sempre, in cui avrei preferito essere da un’altra parte e ci sono andata, ci sto andando ora. Amore, forse non ci sono mai stata. La cura, l'attenzione, la pazienza, la lungimiranza e l'eternità - son cose che non fanno per me. Sono troppo istintiva, troppo immatura, troppo megalomane per saperlo fare, amore, l'amore. Perché l'amore, amore, implica una qualche propensione al concetto più puro dell’impegnarsi e dell’attenersi ai propri doveri. Guardami. Ho 26 anni e non so usare la matita per le sopracciglia. Sono piena di vizi, di nevrosi, di incubi, di pregiudizi. Mi parli di progetti, di felicità, di futuro - io penso ai cimiteri, alle cartine che son quasi finite, all'interfaccia di YouPorn, a Barney Panofsky e alla testa di Jovanotti su un piatto d'argento. E anche se mi reputo capace di slanci, di entusiasmi, di umorismo, di gioia, di lealtà, di affetto, di ragionamento e di comprensione facciamo che l'amore, amore, non mi viene. L'amore si fa in due e tu sei un uomo solo, me ne sono andata, non ci sono mai stata. E la colpa è anche tua. C’è una cosa che ho capito col tempo e te la devo proprio dire: io sono fatta tutta di spigoli e tu questo concetto non l'hai afferrato mai. Gli spigoli esistono e stanno come i morti. Bisognerebbe imparare a evitarli e tu non fai che sbatterci contro. A mia discolpa, ti dico che se avessi potuto scegliere avrei scelto di non farti mai del male, perdonami, perdona me e tutti quanti i miei spigoli. Se avessi potuto scegliere avrei scelto di essere un maschio, un alfa, e avrei spaccato la tua nauseante faccia gentile. Non la sopporto, la tua faccia gentile. Tu non ce li hai, vero, gli spigoli? Certo che no. Tu sei perfetto come una sfera. E dimmi, ce l'hai qualche cazzo di istinto, qualche meschinità, sei capace di gesti violenti, brutti e malvagi o sai solo startene lì, sbalordito e col cuore spezzato, ma sempre aggrappato alla tua pulitissima morale di persona capace d'amore? Capace di fedeltà? Capace di pazienza, di sangue freddo, di devozione e di volontà?

Io te l'avevo detto, che non ero capace. Io te l'avevo detto che avrei mentito, sbagliato, colpito, affondato, bruciato, rovinato, distrutto, sporcato - sporcato tutto, tutto quanto, di polvere e di calcinacci e di merda. Se avessi potuto scegliere avrei scelto di essere un uomo, una donna, capace d'amore - e ti avrei tenuto con me per sempre, avrei compreso la sottile differenza che sta tra il pensare l'amore e farlo e mi sarei tenuta per me i miei gesti, i miei paroloni, i miei giuramenti e ti avrei amato e basta, ogni giorno della nostra vita, e non sarebbe mai arrivato il momento, quel momento, in cui avrei voluto essere da un'altra parte e ci sono andata. Amore, perdonami. Perdonami se non ci sono mai stata.

Giorgio Gaber, Quando sarò capace di amare

18 giugno 2015

Hypocrite écrivain

Carmen Consoli, Non molto lontano da qui
Dicono che sedersi sul fondo della propria doccia e poi piangere sia ciò che fanno le persone quando si arrendono. Dicono che i peccati si pagano - li ho pagati, spero, sedendomi sul fondo della doccia con la pelle assetata, ancora sporca di pioggia e di lui. Di tutti quanti i lui - rivissuti, perduti, amati, ricordati e infine ritrovati, sotto ai platani, dentro Milano, dentro me stessa, da qualche parte tra il 2003 e l'incapacità del mio verbo. Seduta sul piatto della doccia non piango ma lascio che sia Battesimo, lascio che sia purificazione e lascio anche che sia dolore, mentre mi chiedo com'è che è stato, cos'è mancato, quand'è successo che sono diventata così brava a rotolarmi nella mia merda. C'è stato un tempo in cui scrivere era l'atto più sincero, correva l'anno 2003 e il Santo Anonimato ci proteggeva da noi stessi - arranca l'anno 2015 e abbiamo tutti una web reputation da salvare e io sono soltanto io, Benedetta e/o Vanna, basta digitare i miei due nomi affiancati nella barra di Google per trovare dove sono, chi sono, che lavoro faccio, di che cosa mi occupo. "Voglio scrivere qualcosa, qualcosa di vero." - ma come faccio, adesso, a scrivere gli arabeschi delle lenzuola, il ribollire della moka, gli schiaffi, la pazienza, l'inadeguatezza, i nodi, l'acqua, la presunzione e infine le parole che si spaccano a metà, incespicano nell'accento duro, nuovo, si interrompono e infine muoiono, prima che sia stata pronunciata l'ultima vocale. Come te lo racconto, hypocrite lecteur, il terrore agonizzante di chi non vuol morire prima dell'ultima vocale? Al di là della metafora non vi è che lo squallore, l'incapacità del proprio verbo. I platani e il cielo che tuona, io sotto di loro: dolorante e vulnerabile, emaciata e debole, sbattuta come un uovo, fatta di ossa e lividi. Hypocrite lecteur, vorrei farla finita. Farla finita con molte cose, a cominciare dalle metafore. C'è un punto in cui la metafora oltrepassa se stessa e si fa bugia e non sono certa di poterlo tollerare ancora. Non ho sufficiente dimestichezza con le metafore per renderle efficaci, per fare in modo che raccontino come mi sento (se sento) davvero e quello che penso (se penso) davvero. La realtà è spietata, inavvicinabile e indicibile e quando la penso io penso, più che altro, ai platani. I platani a Milano quando piove, quando non sembrano nemmeno alberi. Escrescenze della terra, rampicanti umidi e sporchi, pezzi marci della marcia città che squarciano il cielo e io sotto di loro, rigida e infelice, come un platano. Non sono abbastanza brava per fare fronte all'incapacità del mio verbo e dunque parlarti dei platani vorrebbe essere una metafora. Ma purtroppo è una bugia. 

5 maggio 2015

Tre date

O, "Cose che mi è capitato di scrivere" o, "Fino a qui tutto bene" o, "Perdoname madre por mi vida loca" o "Disperata erotica stomp", o "Il lungo inverno della negazione".


Non ho riti né tradizioni. San Valentino quest’anno non è esattamente la mia Festa, né lo è mai stata. San Valentino è trascorso ed è trascorso in pace, come non fosse mai esistito;  San Valentino è stato un sabato qualsiasi fatto di scadenze e pranzi e impegni. Vissuto tutto quanto, come sempre, in negazione. Se dovessi parlare all'amore gli direi non lo so fare, amore, l’amore. Mi interrogo sulle conseguenze del negare l’amore, negarlo a me. Viverlo come qualcosa di distante, perso, forse mai avuto né concepito. Mi interrogo sulle conseguenze del vivere tutto quanto in negazione. L’inverno mi ha incrostato le ossa fino al midollo e questa è, in effetti, l’unica cosa che non posso negare. Ho già spiegato di come la realtà a volte non sia che una patina grigia, ho già discusso della lunghezza dei minuti e del suicidarsi del sole, ogni giorno, al di là delle finestre. Si sta bene quassù. A volte quassù, al quarto piano, tra le cose più impalpabili e vere, tra la polvere e le pagine, capita che ci si senta soli. Succede al pomeriggio – succede di domenica. La vita è quasi tutta nella domenica. Si sta bene quassù. Anche se si è soli.


Honey, I’m on fire. Sta passando Lana Del Rey. Con quella bocca da puttana e la voce impolverata, stranissima. Nemmeno mi piace, Lana Del Rey. Eppure è uno di quei brandelli di verità; parole, poche e apparentemente semplici, che ti marchiano da qualche parte. Marchiano, appunto, come il fuoco – e restano. Sei arrabbiata? Sei nervosa? Sei arrapata? Sei depressa? No, o forse sì, sì tutte le cose insieme. Honey, I’m on fire. E ci sono da sempre. Arrostisco. Oggi penso al fuoco. Sono belli gli elementi, tutti dovrebbero scriverne, in continuazione. L’acqua, l’aria, la terra e il fuoco. Nessuno sui blog scrive mai delle giornate che sono fatte di fuoco perché non è possibile fotografare il vento, non è possibile raccontare l’acqua – nemmeno quella delle fontane. Scriviamo di tessuti, di INCI, del Jobs Act, dell’ultimo libro (!!!) di Gramellini, di tech, di lifestyle, del coriandolo e del fatto che sia fondamentale utilizzarlo in tutto assolutamente tutto per prevenire il cancro. Oggi penso al fuoco e se potessi scriverlo su tutti i muri, scriverei qualcosa che riguardi il sole; a volte il fatto che ci sia il sole può bastare e non è perché sono una santa, ma perché sono una stupida. In un mondo in cui la logica ti induce a desiderare di più io mi rendo conto di volere sempre meno, della “rinuncia come atto più nobile dell’uomo”. Ciò che una volta era lavoro di lima adesso è bombardamenti, e terra, e fuoco. Distrugge tutto e lo fa sull'arrampicarsi degli istanti, poi si spegne. E io mi interrogo. Sulle conseguenze del vivere tutto quanto in negazione.


La Festa della Donna è passata e abbiamo avuto le nostre mimose (io non le ho avute, ma ho riletto di Margherita e del Maestro e della celebre giornata che odorava di mimose, quindi so il fatto mio) e il muggire intollerabile della pubblica opinione. Ci ammazzano troppo, ci ammazzano troppo poco, donna & mamma, donna in carriera, se ti piace farti sculacciare farti passare il ghiaccio sulle reni o perché no le orge, cosa sei esattamente, sei una troia, sei una donna emancipata? e il fatto che tu vada in Chiesa fa comunque di te un’ipocrita e volendo, una sfigata, oppure sei una donna virtuosa, così virtuosa che come dice Samantha Jones dovrebbero toglierti “il bastone dal culo e infilartelo nella passera”, mi chiedo ti interesserebbe leggere le 10 regole IMPRESCINDIBILI per essere una brava madre? qui c’è il tuo Cosmopolitan, gustatelo, “5 segreti per farlo impazzire a letto”, sarebbe il caso di dedicare altre due righe alla piccola Yara, chissà cosa ne pensa Gramellini, intanto su Mashable e su Instagram si scatenano guerre femministe insanguinate come le proprie cosce nel proprio letto, proprio l’otto marzo, proprio adesso, proprio a me. Sì, la Festa della Donna è passata. Le mimose, beate loro, sono morte. Io mi interrogo, rassegnata, sulla Festa della Donna e sulle conseguenze del vivere tutto quanto in negazione. Le conseguenze. Che effetto farebbe, che so, scaraventare un corpo (di donna, uno qualsiasi) al di là del quarto piano. Però poi non faccio niente. Mi interrogo e basta, e se proprio ho voglia di emozioni forti mi preparo un caffè e mi infilo una mano nei pantaloni - del pigiama, ça va sans dire.

20 gennaio 2015

Un anno lungo un secolo


Life is bigger. La canzone dei REM suona forte. Io sono in Messico e sulla mia nuca stanno tatuando un cubo. Avvegna ch'io mi senta ben tetragono ai colpi di ventura. Anche Dante suona forte, ma lo fa nella testa. Non la pensavano poi così diversamente: sii tetragono, solido e fermo, al cospetto del Fato che ti attende. Il Fato, cioè l'esistenza, la vita. Che è grande e imprevedibile. Life is bigger. Se ho imparato qualcosa nel 2014 quel qualcosa è tutto qui. E me lo sono tatuato addosso, in agosto, sotto al cielo immenso, letteralmente inenarrabile del Messico. Il 2014 è stato un anno molto lungo. E all'insegna delle contraddizioni.

Ci sono stati momenti in cui era come essere Carrie Bradshaw sebbene io non sia così fru-fru né così in forma né così ben dotata di naso. Di Carrie non ho il denaro, non ho il carisma, non ho il mestiere, non ho l'età, non ho lo stile. Di Carrie ho le amiche, ho le gambette corte e molto magre che si aggrovigliano mentre scrivo al computer, fumo sigarette e i capelli mi sparacchiano da tutte le parti. Ci sono stati momenti in cui altro che Carrie Bradshaw. L'esistenza sembrava solo il peggior romanzo mai scritto, fatto tutto di malintesi, di meschinità e squallore. Ho avuto l’impressione che gli istanti più reali fossero quelli impercettibili; mi sono procurata una cicatrice sul dorso della mano con la serpentina del forno che resterà lì, a prova imperitura della mia imbecillità. Quella cicatrice, a volte, sembra la cosa più onesta e vera che mi sia capitata da qualche mese a questa parte. La più commovente. La più tangibile. Perché il 2014 è stato un anno molto lungo e tutto avvolto nella nebbia.

Ne ho combinate delle belle. Ne ho combinate "delle mie". Ho messo fine a un Amore, per cominciare. Non è una tragedia e lo so. Ma chi se ne frega, del resto non ho nessuna pretesa di fare letteratura. Né il web. Io faccio quel che posso e non è molto, credo di averlo ampiamente dimostrato. Era, il nostro, un Amore qualsiasi, giovane e affatto eroico. Si componeva di giorni brevi, di momenti normali. È stato un Amore puro, umile ma vero, che mi ha resa nella sua semplicità incredibilmente felice, ed è finito. L’ho fatto saltare in aria con le bombe, sissignori, sono stata io. Ci siamo lasciati nel giardino della casa in cui non vivo più, accanto alle rose dove ho pianto tanto, per l’ultima volta. Era la primavera agli inizi, il sole filtrava tra le sue ciglia e andava ad adagiarsi in quegli occhi buoni, infiniti, eterni e verdi come smeraldi. Siamo stati cortesi fino all'ultimo, dediti al rispettarci l'un l'altra. Sapevo che era la cosa giusta e sono ancora convinta che sia così, ma questo non ha impedito alla luce di brillare, alle piante di fiorire, a me di sentirmi scorticata ed esposta. Quel mattino il giardiniere mi aveva dato una rosa, recisa per sbaglio da suo figlio. Con quella rosa mi sono punta i polpastrelli e mentre osservavo il mio stesso sangue quell'uomo stanco, vecchio, sentenziò così: "Non c'è rosa senza spine, non c'è amore senza fine". Perché Life is bigger. E funny. E cruel. Suona viscido e mediocre ma non so come altro dirlo: ho sentito il cuore (o quel che è) farsi pietra, creparsi tutto. Qualcosa si faceva deserto ed ero io.

Mi sono scoperta più dura, più inaccessibile. Più forte, ed arida. Era il deserto ed ero io. Ho badato molto a me stessa e ho imparato il valore della solitudine, della noia, dell'assenza. Ho trovato sufficienti ore vuote per contare i miei libri uno a uno e riordinare le carte da gioco secondo colore, seme e numero. Ho allungato il giro dei tram perché mi andava lo spettacolo delle facce e delle vie. Ho letto tanti libri, la maggior parte dei quali buoni. Anno all'insegna delle contraddizioni, e infatti il 2014 è stato anche l'anno in cui mi sono gettata in pasto alla vita. Ho fatto cose che non avevo mai fatto prima, cose pazze, cose hardcore: ho tenuto la giacca aperta nel freddo, ho detto "sì" più volte di quante abbia detto "no", ho messo in mostra le gambe, ho ucciso insetti, ho fatto tardi, ho sghignazzato, ho commesso peccati di piccola / media entità ("bere, fumare, far casini"), ho compreso che non sempre è giusto, né furbo, farsi degli scrupoli. Sono stata più indulgente, più estroversa, più determinata e più attiva. Mi sono divertita. Ed è stato divertente

Ma il 2014 non è stato solo sofferenza, contemplazione e "per me un Martini Bianco, grazie". Il 2014 è stato anche sacrificio e, di conseguenza, risultato. Quando il sole dell'inverno, gelido ma bello, letteralmente si schianta contro le finestre della mia sala da pranzo io mi sento decisamente meglio. Questo bilocale ("impazzito di luce") è la cosa più gentile che potessi farmi e di tutti i risultati è il più felice. Le altre cose sono rimaste pressoché invariate e giuste, così come sono. I miei ritmi, le mie persone, il mio lavoro. Il 2014 è appena terminato e tutto è andato bene. Comunque, è andato.

Nel 2015 vorrei quanto già ho e anche qualcosa in meno. Meno facili opinioni, meno smanie di vendetta, meno deliri di onnipotenza; meno giustificazioni e, al tempo stesso, meno severità nel giudicare e giudicarsi. Vorrei meno stimoli e più approfondimenti, vorrei viaggiare ma per tornare nei posti dove sono già stata per avere il tempo di amarli fino in fondo, un'altra volta. Vorrei evitare le eccitanti novità e propendere per i consueti eccitamenti. Vorrei più contenuti, nelle cose negli altri e in me, vorrei riposare, mangiare carboidrati e zuccheri, dedicarmi ai miei vizi, stare in buona compagnia, leggere qualcosa di bello. Vorrei sentirmi sempre a casa anche quando non sono a casa, bere il caffè con le mie amiche, abbracciare mio padre, sentire la coscienza al proprio posto dopo una giornata di lavoro. Vorrei incontri, tanti, di quelli che ti cambiano e ti formano e anche quando non durano restano, incisi da qualche parte nella carne - il 2014 è quasi tutto nelle cicatrici, negli elastici per capelli, nelle scritte sui muri, nei gatti per le strade, nelle passeggiate al cimitero, negli accendini e negli incontri. E alla luce di questo non chiedo altro che l'anno nuovo ne sia all'altezza. Perché per il 2015, io ho deciso, mantengo un profilo basso e mi accontento di poco. Perché quel poco riempie tutti i vuoti, e li fa miei.

E qualsiasi sia il 2015 che vogliate voi io ve lo auguro, con tutto quanto il cuore.
Vanna